Nel 1912, dopo il ritiro dal calcio professionistico, si trasferisce a Genova per lavorare presso il Porto. Il 30 luglio 1912 viene assunto come allenatore del Genoa. Le ragioni della scelta di un allenatore alla prima esperienza da parte del club ligure (che sino a quel momento si era comunque sempre affidato ad allenatori inglesi) sono incerte. Si è ipotizzato che il suo nome fosse stato suggerito da Vittorio Pozzo o che la sua assunzione sia stata sollecitata dall’irlandese Thomas Coggins, che allenava le giovanili del Genoa.[3] L’appellativo Mister con cui vengono abitualmente indicati i moderni allenatori di calcio viene fatto derivare dal modo in cui Garbutt – da poco giunto sul suolo italiano – veniva salutato ed indicato,[4] appunto mister Garbutt.[5]
Garbutt restò alla guida del Genoa per oltre quindici anni, dalla stagione 1912-1913 alla stagione 1926-1927 (ad esclusione ovviamente del periodo in cui i campionati furono sospesi in concomitanza con la prima guerra mondiale). Ristrutturò il Genoa, introducendo nuovi ritmi di allenamento, con particolare attenzione all’aspetto fisico ed a quello tattico. Garbutt rappresentò il prototipo del allenatore professionista in Italia,[4] effettuando i primi acquisti di giocatori a titolo oneroso in un calcio ancora dilettantistico e dando una decisa spinta verso il professionismo.[senza fonte]
Gli acquisti di Renzo De Vecchi dal Milan e di Attilio Fresia (per 400 lire), Aristodemo Santamaria ed Enrico Sardi (per 1600 lire cadauno) dall’Andrea Doria provocarono l’accusa di professionismo nei confronti del Genoa e dei giocatori coinvolti, che dovettero scontare alcune squalifiche. Con la società rossoblù vinse i campionati 1914-1915 (campionato interrotto con il Genoa capoclassifica per l’entrata in guerra dell’Italia), 1922-1923 (stagione completata senza una sconfitta) e nel 1923-1924 (anno in cui fu istituito lo scudetto tricolore da apporre sulla maglia di campioni d’Italia).
L’ultimo contratto tra il Genoa e Garbutt sarebbe scaduto a luglio del 1926, ma l’allenatore fu convinto a restare ancora per una stagione alla guida della squadra rossoblù. Nonostante l’esito del campionato precedente – ricordato dai tifosi genoani come quello della stella mancata, a causa della contestata vittoria del Bologna in una triplice finale della Lega Nord condizionata da fattori esterni e pressioni politiche – Garbutt accettò di restare ancora per un anno sulla panchina rossoblù.
Una non piccola parte delle fondamenta del grande edificio del calcio italiano moderno si deve a un architetto venuto dalla terra d’Albione, la patria del calcio. Il suo nome era William Garbutt, detto Willy o anche Billy, e sparse il seme del pallone in tutta l’Italia: al Nord, al Centro e al Sud, ovunque lasciando il segno della sua scienza. William Garbutt era stato giocatore di vaglia, attaccante prodigio sedicenne nel Blackburn Rovers, subito carpito dall’Arsenal, dove dopo nove stagioni un duro impatto con un avversario gli aveva guastato un ginocchio. Vedendolo giocare nel 1910, Ivan Sharpe, famoso e longevo giornalista sportivo britannico, scrisse: «Garbutt ha il calcio nel sangue; la sua classe e il suo stile sono davvero incomparabili».
Tramite un amico riuscì a entrare in contatto col Genoa, che in anticipo sui tempi cercava un allenatore per riorganizzarsi e ritrovare la superiorità in campo nazionale smarrita dopo lo scudetto del 1904. Correva dunque l’anno 1912 e Garbutt sbarcò a Genova. L’impatto fu sobrio ma senza equivoci: con linguaggio secco come i suoi lineamenti che parevano tagliati con l’accetta, il nuovo arrivato spiegò che era pronto ad affrontare con entusiasmo la nuova avventura, ma solo a patto che ne valesse economicamente la pena. Il proverbiale culto della lesina degli abitanti della città della Lanterna cedette il passo a un sano realismo. La prima cifra ufficiale conosciuta parla di 4.800 lire annue nel 1915, monetariamente corrispondenti a oltre 13mila euro di oggi, in realtà uno stipendio sontuoso in rapporto al costo della vita dell’epoca. Furono soldi spesi bene, Garbutt si rivelò subito l’uomo giusto al posto giusto.
Aveva il professionismo nel sangue, non solo nel portafoglio. Era maestro pignolo e assiduo, “lavorava” ogni giocatore ai fondamentali e introdusse tecniche di allenamento inedite. Chi calciava con un piede solo veniva costretto a scendere in campo col piede “buono” scalzo, così da dover calciare con l’altro, educandolo al tocco. Sul prato d’allenamento fissava una serie di pioli, sempre più ravvicinati, che gli allievi dovevano superare zigzagando palla al piede, così da migliorare il controllo della sfera nel dribbling. E per colpire bene di testa, i ragazzi dovevano saltare a impattare palloni sospesi in aria tramite una fune e sollevati sempre di più.
Un perfezionista, che impostò il suo primo Genoa secondo i migliori canoni del calcio inglese: potenza atletica, lanci lunghi, grande equilibrio tra i reparti. Vinse il titolo nel 1915 e dopo l’interruzione bellica fu di nuovo al suo posto. Conquistò altri due scudetti consecutivi. Nel 1924, all’altezza del secondo titolo, il suo stipendio era salito alle stelle: 15.000 lire annue. In quello stesso 1924 Vittorio Pozzo lo volle al proprio fianco, assieme all’altro inglese Herbert Burgess, nelle Olimpiadi di Parigi. Pozzo lo ricordava come «ottima persona, serio, lavoratore, competente, innamorato dell’Italia». E aggiungeva che, essendo l’Italia alloggiata in un piccolo albergo vicino a Place Pigalle, «i due inglesi furono da me comandati a dormire a turno sul pianerottolo che bloccava le vie di entrata e di uscita dell’albergo, per impedire eventuali scappatelle notturne dei giocatori».
Nel 1927, dopo una milizia record sotto la Lanterna, il grande Garbutt viene chiamato alla Roma. Due anni dopo chiude il suo giro d’Italia, ingaggiato da Giorgio Ascarelli per fare del Napoli una squadra di alto rango. Riuscì nell’impresa. Bandita la goliardia, impose un sistema rigido di allenamenti, anche se l’intelligenza gli consiglio di smussare certi angoli, venendo incontro al carattere tipico della gente partenopea. Variò gli allenamenti, camuffando i più duri sotto le gradevoli specie di giochi, allietati da scommesse: chi sbagliava di più pagava da bere agli altri.
La sua sensibilità di fine psicologo lo portò a seguire i giocatori fuori dal campo. Se li faceva amici, “confessandoli” da buon padre o consigliandoli come un fratello maggiore. La competenza faceva il resto. Alla vigilia di ogni gara spiegava ogni dettaglio, illustrando le caratteristiche tecniche di tutti gli avversari. Banalità, verrebbe da dire oggi, mentre allora, in assenza di televisione, si trattava di rivoluzione allo stato puro.
Dall’allegro dilettantismo la squadra passò ad una nuova dimensione, di cui furono testimonianza i due terzi posti consecutivi colti nel ’33 e nel ’34. Quando i rapporti si logorarono, gli capitò un’allettante offerta spagnola, dal Bilbao, per un’unica stagione lontano dall’Italia. Napoli gli era rimasta nel cuore, al punto da aggiungere al figlio che già aveva una sorellina adottiva, Concetta Ciletti, bimba di Bagnoli Irpino segnalatagli dal medico del Napoli Athos Zontini.
Chiusa la stagione nel Bilbao, tornò in Italia e si accasò al Milan, chiamatovi a sostituire dopo dieci giornate Adolfo Baloncieri: conquistò il quarto posto. Aveva lasciato profonde nostalgie soprattutto a Genova, dove l’era della gloria era tramontata da un pezzo e torno nel 1937 a guidare la squadra rossoblu. La sua mano pesava ancora e il Genoa tornò tra le big. Sempre aggiornatissimo, Garbutt fu il primo ad adottare il Sistema in Italia. Lo decise nell’estate del 1939 e dopo due giornate Renato Tosatti (il giornalista padre di Giorgio, atteso da un destino tragico nel rogo di Superga) scriveva: «Il Genova ha qualcosa di nuovo da raccontarci in fatto di tattica calcistica. La nostra curiosità di giornalisti ficcanaso è pari ali ‘inquietudine serpeggiante nelle squadre che al Genova, oggi o domani dovranno dare la replica».
Dopo oltre vent’anni, Garbutt era ancora al centro dell’attenzione. In quella stagione lo aveva affiancato Ottavio Barbieri, che poi avrebbe guidato i Vigili del Fuoco di La Spezia a vincere l’ufficioso campionato di guerra. E proprio l’approssimarsi della guerra fu il segno che la fortuna cominciava ad abbandonare il grande uomo di calcio. Come l’Italia entrò in guerra, nel 1940, Garbutt si ritrovò internato come cittadino di Paese nemico. Perse la moglie durante un bombardamento e quando riacquistò la libertà il fisico cominciava a declinare.
Nel 1946 il Genoa lo chiamò per la terza volta, ma dopo qualche tempo si ammalo e restò parzialmente paralizzato. Infine, cadde dal tram in una via di Genova subendo una grave frattura. Nel febbraio 1948 veniva sostituito sulla panchina rossoblu da Federico Allasio. La guerra e il ricorso alle cure mediche ne avevano prosciugato le sostanze. Napoli e Genoa organizzarono amichevoli per devolvergli gli incassi. Infine tornò in Inghilterra, nella casetta di Leamington assieme alla figlia che lo assistette fino alla morte, il 16 febbraio 1964.
Era il 30 luglio, anno 1912. Su segnalazione dell’irlandese Thomas Coggins, operativo nel settore giovanile, William Garbutt, il mister dei mister, entra nella storia del Genoa per non uscirci più. Un’esperienza cucita con l’ago di lustri aprendo, e chiudendo, parentesi in varie epoche alla guida del Grifone. Da allenatore si formò nel Blackburn Rovers, dove aveva interrotto la carriera di giocatore per un infortunio. Vinse tre scudetti sotto la Lanterna. Di fatto il primo allenatore professionista nel nostro Paese. Con il suo arrivo il movimento del football virò in direzione di criteri diversi. Nuove metodologie di allenamento. E una scuola di pensiero, articolata sugli aspetti fisici e tattici, presa a modello e scopiazzata dai competitor di allora.
Il football dalle nostre parti è ancora affare per poche persone quando un signore che viene dall’Inghilterra arriva a Genova. Come tanti altri, direte voi. Sì, ma quel signore è diverso. Quel signore è William Garbutt e con tanto di pipa e metodi d’allenamento dalle nostre parti mai visti prima sarà destinato a diventare il primo “mister” professionista della storia del calcio italiano.
DAL CAMPO ALLA PANCHINA – Nato a Hazel Grove, quartiere periferico della cittadina di Stockport, vicino a Manchester, dove gli orizzonti di futuro sono bassi e sfocati, William Garbutt è costretto sin da ragazzino a lavorare in una fabbrica di scatole per aiutare la famiglia non certo agiata. Nella sua vita, però, entra sin da subito anche il football ed è dannatamente bravo con il pallone tanto che a diciannove anni Garbutt gioca nella squadra dell’esercito dove viene visto dai dirigenti del Reading e da questi ingaggiato. Il debutto in First Division avviene nel dicembre del 1905 dopo che si è trasferito al Woolwich Arsenal. A Londra ci sta un paio di stagioni per poi passare, nella tarda primavera del 1908, al Blackburn Rovers dove rimarrà sino a quando un gravissimo infortunio metterà fine alla sua carriera. Di quell’episodio, di quel sabato durante il quale la carriera calcistica di Garbutt si interrompe per sempre, ne è testimone proprio Vittorio Pozzo che così ricorda quel giorno:
“ (…) Per una combinazione straordinaria, vidi Garbutt terminare la sua carriera da giocatore. (…) Ero andato a Blackburn, con uno dei soliti treni speciali, per l’incontro Blackburn Rovers – Manchester United. Garbutt giocava come ala destra del Blackburn. Verso la fine del primo tempo, proprio di fronte a me che stavo in prima fila nei posti popolari, in trincea, con il viso proprio a livello del terreno di gioco, Garbutt tentò di battere un avversario spedendo la palla sulla destra e lui girando a sinistra dell’ostacolo vivente. Cadde, non si rialzò. Nel brusco scarto si era prodotto una profonda lacerazione all’inguine.”
La carriera di Garbutt da calciatore finisce quel giorno. Ciò che non termina è il rapporto di Garbutt con il football. “Farò l’allenatore!” Ecco presa la decisione di ciò che William farà nel secondo tempo della sua carriera calcistica. Inizia a farlo già nel Blackburn ma la sua fortuna – lui ancora non lo sa – è che il nome di William Garbutt arriva sino a Genova dove Thomas Coggins, un irlandese che in Italia segue le giovanili del Genoa, lo segnala al presidente rossoblu. Coggins sa quello che sta facendo e sa cosa vuole Garbutt per se stesso. Il Genoa è la società più inglese d’Italia, ti troverai bene. E poi paga che è un piacere!
“MISTER” GARBUTT, PROFESSIONISTA IN PANCHINA – Va bene essere allenatore, va bene venire dalla patria del professionismo calcistico, ma in Italia essere pagati per fare calcio non è proprio possibile. È vietato. Garbutt l’allenatore lo fa a Genova, che è piazza ben disposta ad andare contro questa regola ben poco inglese. Il “mister” viene dunque assunto come consulente in una ditta di Davidosn, dirigente rossoblu e pagato “sottobanco”. È il 30 luglio del 1912 quando William Garbutt arriva a Genova e da quel momento essere allenatore non sarà più come prima. Con lui si inizia ad usare l’appellativo “Mister” per indicare l’allenatore, semplicemente perché Garbutt è inglese e viene salutato “Mister Garbutt”. Soprattutto, però, con lui cambia in modo radicale la figura dell’allenatore. Possiamo quasi dire che con Garbutt viene introdotto un metodo di allenamento che in Italia sino a quel momento non si era mai visto. In un periodo storico dominato dalle bianche casacche della Pro Vercelli, il Genoa grazie ai metodi di allenamento di Garbutt riesce, nella sorpresa generale, ad entrare nel girone finale del campionato 1913/14. Lo stesso allenatore inglese dalle pagine de Lo Sport Illustrato spiega i motivi per i quali la squadra ligure è riuscita nell’impresa, affermando che tutti i giocatori, vecchi e nuovi, hanno “dato una prova meravigliosa di attaccamento alla loro società e ne hanno voluto a ogni costo vincitori i colori” aggiungendo che questo non sarebbe bastato senza un “serio, continuo, sistematico lavoro preparatorio”. Il lavoro, l’allenamento. Garbutt introduce sistemi di allenamento nuovi – tattici – allenando i giocatori il più possibile nella posizione che ciascuno di essi occupava in squadra:
“Un buon allenamento per una coppia di terzini è quello di calciare il pallone l’uno a l’altro da una distanza di circa 40 o 50 metri e di cercare di riceverlo da qualsiasi direzione provenga e, qualche volta, prima che tocchi terra, mantenendolo nello stesso tempo basso e appoggiandoselo l’uno coll’altro pur tenendolo sempre nel campo da giuoco. Anche gli half-backs debbono avere un pallone per conto loro, ed il loro allenamento fra l’altro consiste nei colpi di testa e nei passaggi coi backs. (…) Secondo la mia opinione il segreto dei nostri successi sta nel metodo di giuoco che è quello che gli inglesi chiamano open game, cioè giuoco aperto, giuoco dai lunghi passaggi e nell’allenamento fisico che presenta i giuocatori nelle più favorevoli condizioni.
Garbutt per il calcio italiano rappresenta il prototipo dell’allenatore professionista non solo per i metodi allenamento ma anche perché interviene in prima persona nella richiesta di giocatori, richieste che vengono esaudite dalla ricca dirigenza genoana. De Vecchi, Sardi, Fresia, Santamaria: il Grifone mette in atto una ricca e aggressiva “campagna acquisti” – seppur vietata dai regolamenti federali – che, assieme alla sapienza di Garbutt, permetterà alla squadra del Genoa di tornare ai vertici del calcio italiano e, con gli anni’20, di vincere entusiasmanti campionati. Ed è grazie a lui se in Italia nel 1913 vediamo giocare per la prima volta una “vera” squadra inglese: il Reading, il vecchio club nel quale Garbutt aveva giocato, viene infatti in tournée per una serie di incontri di esibizione anche su suo invito. Terminata l’esperienza al Genoa, Garbutt allena la Roma dove vince la Coppa CONI e il Napoli, prima di andare a Bilbao sulla panchina dell’Athletic.
IL GARBUTT “PRIVATO” – Con la seconda metà degli anni’30 Garbutt rientra in Italia. Alcuni anni fa è uscito anche in Italia un’interessante biografia di Paul Edgerton dedicata a William Garbutt che ne ripercorre in modo accurato non solo le vicende sportive ma anche – soprattutto – quelle personali. Dagli inizi stentati all’arrivo in Italia e alla successiva partenza come volontario allo scoppio della Prima guerra mondiale sino agli anni del fascismo, Edgerton racconta il Garbutt “italiano”. È con il 1940, quando la Gran Bretagna entra in guerra contro l’Italia, che Garbutt viene considerato ospite non gradito e quindi prima internato per un breve periodo, poi costretto ad un pellegrinaggio che porterà Garbutt e la sua famiglia da Acerno, a Orsogna ed infine a Imola. E proprio nella località emiliana Garbutt vive la tragedia più profonda, quando il 13 maggio del 1944 la moglie Anna muore sotto le bombe alleate. Terminata la guerra, nonostante la dolorosa perdita, Garbutt allena ancora un paio di stagioni a Genova, poi si ritira definitivamente, scivolando mestamente nell’oblio. Muore accompagnato nel suo ultimo viaggio soltanto dai famigliari, ormai dimenticato dal mondo del calcio.
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